Omelia del 7 Maggio 2006
IV Domenica di Pasqua (Anno B)
I Lettura: At 4,8-12; Salmo 117; II Lettura: 1Gv 3,1-2; Vangelo Gv 10,11-18
«In quel tempo, Gesù disse: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”». (Gv 10,11-18)
Gesù non poteva scegliere un’immagine più bella per presentarsi agli uomini: l’immagine del pastore. Nella letteratura e nell’immaginario popolare il pastore è una figura che dà tranquillità, sicurezza e serenità, perché egli si pone come custode e protettore delle pecore.
Ecco allora, in un momento in cui noi abbiamo bisogno di incontrare nella Chiesa pastori autentici, Gesù si presenta come modello insostituibile: “Io sono il buon pastore”. Vorrei che in queste parole voi sentiste veramente l’amore che le accompagna e l’amore che esse esprimono.
Il pastore è colui che dà la vita per le sue pecore, queste sono parole di Gesù e l’offerta che Egli ha fatto è quella che stiamo vivendo nella celebrazione della S. Messa: attualizzazione del sacrificio della Croce, come sacrificio incruento, che si ripete ogni volta per volontà e ordine del Signore.
Le pecore hanno bisogno di assistenza e di parole, infatti chi ha un’immagine pastorale e bucolica, sa che i pastori, e intendo in questo momento i pastori umani, si rivolgono alle pecore, parlano loro, e le riconoscono: questo è quello che Cristo vuol farci capire presentandosi come pastore. Gesù dice: “Io conosco le mie pecore”. Non è una conoscenza sperimentale, né occasionale o fatta di sguardi che si incrociano, Gesù dice: “conosco le mie pecore” e in questo caso indica qualcosa di molto alto, vale a dire: “Io amo le miei pecore e le mie pecore amano me”. Questo amore noi lo vediamo, lo constatiamo, lo incontriamo ogni volta nel sacrificio eucaristico. Le pecore vengono condotte al pascolo e i pastori sanno quali sono i pascoli migliori e il pascolo è il cibo che Gesù ci dà: “Il mio corpo e il mio sangue è veramente cibo, è veramente bevanda”. Questa è l’immagine del pastore che si offre a noi. Gesù è il pastore eterno di tutta l’umanità. Non dobbiamo pensare che abbia svolto la sua mansione pastorale solo durante la sua vita terrena e che dopo l’ascensione si sia ritirato in un pensionato. No! Chi pensa questo non è nella verità. Gesù continua ad essere pastore degli uomini e della Chiesa, esattamente come quando camminava e percorreva le vie e le strade della Palestina annunziando la parola di Dio.
Gesù è pastore eterno, presente, insostituibile della sua Chiesa, è il pastore di tutti i pastori. La profezia, che certamente arriverà a realizzarsi, di un solo gregge e di un solo pastore, evidenzia esattamente questo, ci sarà un solo gregge e un solo pastore: Gesù. Chi si attribuisce l’appellativo di pastore, come noi vescovi e sacerdoti, deve pensare che oltre ad essere pastore nei riguardi dei fedeli a loro affidati, deve essere contemporaneamente pecora dell’unico ovile, che è il gregge del Cristo. Quindi ciascuna pecora, nella sua specificità, non smette mai di essere condotta, guidata e anche ammonita, qualora dovesse errare o sbagliare.
Il sacerdote è pastore ma anche pecora, ve lo dico con rispetto, perché prima di tutto questa espressione la attribuisco a me. Se io mi sentissi solo pastore, io usurperei i diritti del Signore, che si presenta come unico pastore. Ci sarà un solo gregge e un solo pastore, ebbene, pecore intelligenti e responsabili.
Dal Vangelo di Giovanni passiamo alla prima lettera di San Giovanni, dove voi trovate quale sia la definizione di essere figlio di Dio.
«Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è». (1Gv 3,1-2)
“Vedete quale grande Amore ci ha dato il Padre…”. Questo Amore che si è incarnato, si è fatto presente nel Figlio che ha restituito l’uomo alla sua primitiva giustizia e santità, è l’amore del Padre che si è manifestato nel Figlio. Un amore immenso che ci porta ad una dignità talmente elevata e talmente grande che noi, finché siamo sulla terra, non siamo in grado di apprezzare. San Giovanni lo dice: “Noi fin d’ora siamo figli di Dio ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato”. In questo voi vedete un dinamismo, un processo: durante la fase terrena quindi, coloro che amano Dio, che hanno un rapporto stretto con Lui, iniziano una figliolanza talmente grande ed elevata che potrà essere compresa integralmente soltanto quando saremo in Paradiso.
Quando noi saremo in Paradiso avremo molto più dei doni che Dio ha dato ai nostri progenitori: quelli naturali, soprannaturali e preternaturali. Siate tranquilli, siate sereni e sicuri, anche chi non conosce alcune verità di fede, invece in Paradiso, con la visione di Dio, avrà una conoscenza del mistero di Dio molto più grande di quella raggiunta sulla terra. È questo quello che conta, perché soltanto in Paradiso Dio si manifesterà così com’è.
Nessuno può descrivere Dio, nessuno può parlare con sufficienza di Dio. Provate, mettendovi un momento in riflessione davanti al tabernacolo dove è presente Dio e cominciate a pensare: “Mio Dio, se dovessi descriverti ai miei fratelli, cosa dovrei dire?”. Credo che cominceremmo a balbettare, a pronunciare espressioni che non soddisfano prima di tutto noi stessi, perché Dio può essere compreso soltanto in Paradiso e nemmeno nella sua totalità e concretezza. Infatti, la conoscenza è proporzionale all’amore, così quanto più noi avremo amato Dio sulla terra, tanto più riusciremo a conoscere Dio in Paradiso.
Ecco il motivo per cui Gesù ci ha insegnato, ci ha donato il grande comandamento dell’amore e anche la Madre dell’Eucaristia ci spinge continuamente all’amore, perché tutto si risolve nell’amore. Tutto si perde se è assente l’amore ma tutto si conquista quando c’è, compreso Dio e la sua conoscenza.
Allora cominciamo ad accumulare quest’amore, come patrimonio, durante la fase della vita terrena, per poterlo poi trasformare in un modo più ampio, più grande. Questo è il bello del Paradiso! Una conoscenza migliore ci spingerà ad un amore ancora più alto e allora ci sarà questo processo all’infinito. Dio è infinito e quindi irraggiungibile, il nostro processo di conoscenza e amore non potrà mai esaurirsi, ma andrà sempre avanti: più si conoscerà Dio e più si amerà, anche in Paradiso quindi, ci sarà un continuo crescere nell’amore.
Credo che sia sufficiente questo per metterci nella condizione di avere nel cuore quell’espressione, quell’esperienza che manifestiamo nella preghiera “Gesù dolce Maestro”, quando diciamo “la nostalgia del Paradiso”, ossia desiderare il Paradiso, con una vita impegnata e seria, che ci porti a dare il meglio di noi stessi.
Ritorno a quanto ha detto la Madonna oggi: “Questo è bello e gioioso: amare coloro che non vi amano”. La comprensione e la spiegazione adesso l’avete avuta. Amando chi ci fa soffrire, guadagniamo un tale patrimonio, che sfrutteremo in Paradiso.
L’amore più difficile è rivolto proprio alle persone che ci fanno soffrire, ma questo immette dentro di noi una capacità, una potenza talmente alta, che potremo tenerla presente quando saremo in Paradiso. Forse per la prima volta riuscite a capire la motivazione per cui Gesù ci porta ad amare.
Io amo chi mi fa soffrire, perché potrò godere e conoscere Te, mio Dio, molto di più in Paradiso: non ci abbandoni mai questo pensiero. Questa è la strada, questa è la conoscenza ed è l’impegno che noi dobbiamo mettere nella nostra vita, anche se purtroppo è una vita provata, dolorosa e sofferta. Capitalizziamo giorno per giorno una ricchezza che ci servirà un domani per godere Dio in un modo sempre più crescente. Questo sia nel nostro cuore e nella nostra mente, soprattutto nei momenti in cui incontreremo la sofferenza.
Sia lodato Gesù Cristo.